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Il mantello dell’invisibilità
Quando è esposta in un museo, una bandiera smette di sventolare. Indossate dai rivoluzionari, issate sui pennoni delle navi, brandite dalle masse popolari, le bandiere muoiono quando le soffochiamo in una teca. Per questo, rubare una bandiera da un museo è un po’ come festeggiare la Pasqua: vuol dire celebrarne la Risurrezione.
Juan Manuel Blanes, “El Juramento de los Treinta y Tres Orientales”, olio su tela, 311 x 564 cm, 1875-1878.
Nel 1969 in Uruguay la Pasqua cadde il 16 luglio, quando i Tupamaros rubarono dal Museo Histórico Nacional di Montevideo una bandiera che non poteva restare sotto vetro; quella fatta sventolare dai rivoluzionari che nell’Ottocento avevano liberato il Paese dal dominio brasiliano: la bandiera su cui spiccano le parole Libertad o Muerte (“libertà o morte”).
La bandera de los Treinta y Tres rubata dall’Organización Popular Revolucionaria “33 Orientales” (OPR-33).
Nel 2016 la controversa questione finisce alla Biennale di architettura di Venezia. Nel padiglione dell’Uruguay, una scritta invita i visitatori a “sottrarre” oggetti dagli altri padiglioni e portarli in quello uruguaiano, con l’obiettivo di raccogliere opere da spedire oltreoceano e destinare al Museo di Montevideo. In cambio della refurtiva si riceve un sacchetto contenente terra dell’Uruguay.
L’invito rivolto ai visitatori del padiglione (a sinistra) e i sacchetti di terra uruguaiana (a destra).
Per facilitare le sottrazioni sono disponibili dei mantelli dell’invisibilità, da indossare mentre ci si aggira tra le varie installazioni.
Quello che succede lo racconta Oliver Wainwright sul Guardian:
“Sono venuto a ritirare il sacchetto di terra” dice un uomo che indossa un telo di plastica verde e trasporta un secchio di yogurt da cinque litri sui gradini del padiglione uruguaiano. “L’ho rubato dal padiglione tedesco senza farmi beccare”. Dietro di lui, altri tre sono avvolti nella plastica e tutti hanno con sé refurtiva rubata dai trenta padiglioni nazionali ospitati nei giardini della Biennale. (1)
Fotografia di Gianluca Giordano
È un modo originale di coinvolgere il pubblico in un’azione che intercetta il complesso rapporto tra patrimonio pubblico, proprietà privata e cornici museali. A questo proposito, Christiane Bürklein scriverà:
Questa raccolta eleva il gesto del furto a forma di espressione sovversiva. (2)
In poche ore, il padiglione uruguaiano si riempie di oggetti rubati. Quando si rendono conto di quello che sta accadendo, gli organizzatori della mostra sospendono la performance e si affrettano a chiudere il padiglione.
Una parte della refurtiva.
A concepire la sofisticata operazione era stato un collettivo artistico di Roma: ATI Suffix. Quando li ho incontrati a fine febbraio a Roma, mi hanno spiegato come i partecipanti erano riusciti a far funzionare il mantello dell’invisibilità. Il suo verde era così sgargiante che, quando una entrava in un padiglione avvolta nella plastica, tutti si voltavano a osservarla. Approfittando dello sconcerto, un complice poteva agire indisturbato e rubare un pezzo dalle installazioni. Insomma, dietro l’invisibilità non c’erano incantesimi o tecnologie militari, ma la classica misdirection dell’illusionismo.
Sto scrivendo del collettivo artistico romano per un motivo semplice e meraviglioso: sono la cosa più bella che sia capitata nel mondo della magia degli ultimi anni. Di recente, infatti, hanno fondato una scuola politica di prestigiazione che indaga la relazione tra magia e pensiero critico e promuove l’illusionismo come l’arte marziale del dubbio e come forma di conoscenza: la più adatta per navigare nella post-verità. Sul loro sito illusionismocritico.it si legge:
Non colui che ignora l’alfabeto bensì colui che ignora la magia, sarà l’analfabeta del futuro.
Sono giovani e hanno un’ampia componente femminile, cosa assolutamente insolita se guardiamo alla composizione media dei circoli magici. Confrontarmi con loro è un’occasione continua di arricchimento intellettuale, politico ma soprattutto umano.
Per farsi un’idea delle cose che fanno si può partire dal loro Magical History Tour: una serie che rivela la magia insospettata che si cela in tutti i più grandi avvenimenti della storia.
Magical History Tour, episodio 1
Magical History Tour, episodio 2
Poiché molte di loro si occupano di architettura e arti visive, ogni puntata è anche una festa per gli occhi: la ruvida estetica mescola i collage della mail art, le geometrie di Tron e il surrealismo di Terry Gilliam.
Matteo Locci spiega così l’approccio del collettivo:
Non siamo performer professionisti, abbiamo quel ’grado zero’ della dimensione performativa che apre le porte al pubblico; è molto facile per le altre persone interromperci, siamo talmente goffi che chiunque può inserirsi, riuscendo alla fine a partecipare effettivamente. (3)
Questo è il loro segreto: organizzare azioni magiche inclusive, aperte a tutti, che usano le nostre città come teatro.
Voglio dirlo senza giri di parole. Il mainstream della magia è fatto di organizzazioni il cui unico criterio estetico è la domanda “fare questa cosa ci farà guadagnare dei soldi?” Se volete farlo contento, non limitatevi ad applaudirlo: dategli anche dei soldi.
Ma come in tutti gli ambiti artistici, esiste una scena indipendente che mette al primo posto l’anima. È una comunità meticcia, inclusiva, femminile, punk, libera di dire cose scomode, senza padroni, senza vincoli. È il luogo dove la creatività si spiega alla massima potenza: non a caso, è dove si trovano le cose migliori.
Se per la magia si stanno aprendo dimensioni inedite, completamente “altre”, lo dobbiamo a Natalia Agati, Matteo Locci, Marta Montevecchi, Francesco Restuccia, Maria Rocco e alle altre anime creative del collettivo romano. Quello che toccano diventa oro.
È sufficiente un singolo esempio. In un suo articolo, Francesco Restuccia si chiede come si può essere originali; una domanda molto pertinente nel campo della magia, dove centinaia di cloni presentano lo stesso gioco con le stesse parole e lo stesso abbigliamento.
Camera Restricta, la fotocamera disobbediente che si rifiuta di scattare foto noiose. Quando installeremo la stessa tecnologia nell’ambito dell’illusionismo?
Francesco racconta della macchina fotografica disobbediente realizzata da Philipp Schmitt: la Camera Restricta. All’interno contiene un GPS. Se provate a scattare una foto, la macchina verifica su Internet quante altre persone hanno già catturato un’immagine in quel luogo; se sono troppe, si rifiuta di scattare. Scordatevi di fotografare piazza San Marco o la Tour Eiffel.
Ma questo è un programma di vita: evitare il già visto, privilegiare il dettaglio, salire sempre al secondo piano. Pensate se una casa magica brevettasse un mazzo di carte la cui struttura ti impedisce di mettere in scena i giochi che fanno tutti... E questa è solo una delle vertiginose idee con cui si intrattengono quotidianamente nel collettivo ATI Suffix.
Cercatelo su Internet, scopritene le incredibili attività e vi renderete conto che il loro nome è la più bella sorpresa che avreste potuto trovare nell’uovo pasquale (4) .
Il video
“Il mantello dell’invisibilità” è anche in formato video nell’episodio 186 di Mesmer in pillole di e con Mariano Tomatis.
Note
2. Christiane Bürklein, “Biennale 2016. Uruguay – Reboot e rebootATI”, Floornature, 17.6.2016.
4. Questo articolo è stato pubblicato la notte di Pasqua 2020